Femminismo ed Ecologia: un rapporto necessario ma non facile

mercoledì 13 Luglio 2022

di Titta Vadalà

La crisi climatica, l’accelerare delle mutazioni nella biosfera per la perdita di biodiversità e la incombente necessità di un cambio di civiltà hanno reso non più procrastinabile la presa di coscienza che le donne hanno un rapporto privilegiato e fondativo con l’ecologia nella prospettiva della salvaguardia del pianeta.

Il termine ecofemminismo non è né nuovo né oggi esplicativo delle diverse interpretazioni e approcci che convivono e\o si scontrano all’interno del movimento delle donne. Il rapporto esplicito tra femminismo ed ecologia è stato preceduto da molte donne impegnate nel campo della ricerca scientifica e spesso fondatrici di un pensiero ecologico che sarà decisivo per gli studi contemporanei nella biologia e nello specismo. A questo si è aggiunta la riflessione sul ruolo del femminile nei processi di globalizzazione legati all’agricoltura e alla mercificazione del vivente che passa da natura a commodity attraverso i percorsi di brevettazione.

In questo complesso quadro di riferimenti teorici si innesta, poi, l’elaborazione del pensiero della differenza che sussume nel femminile la questione ecologica. La relazione Natura\Cultura diventa, dunque, elemento di avanzamento nella elaborazione delle donne che possono così iniziare a considerare il corpo e il materno come elementi di liberazione e non solo ostacoli per l’emancipazione. Il potere sul proprio corpo è un diritto che si inquadra nel limite allo sfruttamento patriarcale della natura. Si pone quindi il pensiero di una nuova alleanza tra femminismo e antispecismo che ancora deve dispiegare completamente il suo potenziale così come la discussione sul post-umano mette in luce.

Alla complessità di questo quadro teorico si è accompagnata nel corso dei decenni una incertezza sul piano dell’impegno politico e istituzionale delle donne in riferimento alle tematiche ecologiche. Sorprendentemente, le donne hanno da sempre massicciamente partecipato e a volte guidato i movimenti ecologisti ed eco-pacifisti, sebbene la loro azione non si sia mai tradotta in presenza ai vertici dei partiti politici, né nelle istituzioni. L’impegno ecologista non è stato un percorso che ha portato le donne negli organismi di governo.

Dai movimenti per l’agricoltura biologica e la sovranità alimentare alla difesa delle popolazioni indigene, dalle esperienze di nuove forme di organizzazione sociale con le comunità e gli eco-villaggi alla presenza di ricercatrici, numerose nelle discipline specifiche relative al vivente, le donne hanno manifestato di sentire la necessità di salvare il pianeta occupandosene in prima persona.

L’urgenza. È questa la variabile che oggi si impone al femminismo che voglia davvero liberare le donne salvando il pianeta. È quindi non più rinviabile, sia per la crisi climatica che per il caos globale dovuto alla guerra in corso, una totale fusione tra le istanze citate che finora sono apparse separate. È la tragedia che si profila all’orizzonte del mondo che rende questa presa in carico necessaria e difficile allo stesso tempo. Le donne stanno lottando ancora contro la violenza maschile e le nuove forme che il patriarcato sta assumendo ma risulta evidente che solo un salto di civiltà che metta il pianeta “al centro” può assicurare la vera liberazione.

I diritti soggettivi non possono essere senza limiti. Nel nuovo scenario di mutamento delle forme di famiglia che si stanno profilando e che mettono in crisi l’ordine patriarcale, le donne hanno bisogno di andare oltre il “politically correct” oggi imperante e che rischia di asfissiarle nella diatriba su lgbtq+. Si sta manifestando, oggi, un nuovo spirito comunitario di cui le donne sono protagoniste, sicuramente inscrivibile nel tentativo di riequilibrare i rapporti tra specie umana e Pianeta, segno appunto di una nuova civiltà.

A partire dalla Conferenza di Pechino del 1995 negli ultimi decenni si è consolidata la tematica delle “gender issues” nelle organizzazioni delle Nazioni Unite e in altri meccanismi internazionali e sono, ormai, numerosi a livello globale gli organismi dedicati alle problematiche di genere. Tuttavia, a fronte della produzione di risoluzioni e raccomandazioni (ultima la risoluzione della Commission on the Status of Womenorganismo dell’ECOSOC Comitato Economico e Sociale – che nella sessione del 14-24 marzo 2022 pubblica “Achieving gender equality and the empowerment of all women and girls in the context of climate change, environmental and disaster risk reduction policies and programmes”) non pare che si stia delineando con chiarezza quali siano gli interventi su scala globale e a livello degli stati nazionali suggeriti per affrontare il nodo cruciale della diversa intensità e qualità degli effetti della crisi climatica e dell’inquinamento sulle donne. Lo stesso problema si presenta nel Millennium Development Goals dove la sostenibilità degli obiettivi con difficoltà viene declinata in base al genere se non per ribadire la necessità di superare il “gap”.

In risposta alla crisi pandemica, l’Europa si è mossa bene con il Next Generation EU ma l’Half of it – ovvero la proposta di destinazione del 50% delle risorse alle donne lanciata da alcune forze parlamentari europee – non ha trovato che assenso di facciata. Ad oggi, nei provvedimenti attuativi, tale “visione di genere” si rintraccia con difficoltà specie nell’ottica della cosiddetta sostenibilità che, anzi, di fronte alla guerra in atto, viene pericolosamente messa in discussione. Il PNRR sembra scolorarsi sempre più…

L’espressione “transizione ecologica” è oggi usata per definire la trasformazione necessaria verso un modello di società e di utilizzo delle risorse che consenta di raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e dell’Agenda 2030, affinché il riscaldamento globale non superi gli 1.5° C rispetto ai livelli preindustriali. In Europa, e quindi in Italia, l’impegno è di ridurre le emissioni del 55% (rispetto al 1990) nel 2030 e la neutralità carbonica entro il 2050.

In questo quadro appare da dati consolidati – rafforzati dalla situazione creata dalla pandemia – che l’unica possibilità reale che si realizzi tale transizione ecologica è l’abbandono di ogni approccio “gender neutral” nelle politiche economiche. Basti citare i differenti impatti nella morbilità del Covid e il diverso ruolo che le donne possono avere nella trasformazione dell’organizzazione del tempo di vita e di lavoro: medicina di genere e smart-working non sono ancora diventati capitoli nell’agenda reale del governo ma è ora che essi cessino di essere discussione di principi astratti.

È questo che rende reale la rivendicazione di giustizia climatica al di là del rapporto nord-sud del mondo. La povertà energetica, ad esempio, colpisce in maniera differenziata uomini e donne così come la trasformazione del vivere urbano, di cui si va sempre più discutendo, risulterebbe sterile senza la visione che di questa trasformazione le donne possono e devono dare.

Molti sono gli elementi che depongono per una visione di genere della crisi climatica in atto. Alla ribalta del mondo oltre alle pandemie causate dallo spill-over dei patogeni animali all’interno della specie umana (siamo solo all’inizio), c’è anche la carestia e con essa il Cibo che ritorna ad essere uno strategico elemento per i rapporti di dominio nel mondo. Forse non è mai stato abbandonato, ma il cibo deve tornare e sta tornando nelle mani delle donne che vogliono determinarne la produzione e la trasformazione, pienamente consapevoli che i campi e la cucina non sono più luoghi di segregazione.

È solo una delle tante cose da fare e da fare in fretta.

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